Luka Doncic e Andres Nocioni, ovvero: il basket non è un gioco da ragazzi
La Final 4 ha messo Luka Doncic in una situazione che non conosceva. Non ha giocato bene, si è spaventato.
Nocioni ha giocato l’ultima partita di EuroLega di una grande carriera.
Un ragazzo e un uomo, un percorso che non è solo di basket.
“Un
giorno mio padre mi chiamò e mi disse: -Morire si deve morire, ma non ti
preoccupare, anche quando sarò morto, io verrò a farmi un giro a casa ogni sera
e tu mi sentirai passare.- E io ogni sera a casa sento un vento e mi dico,
quello è mio padre.”
Il diacono di una chiesa, a un rosario.
Il diacono di una chiesa, a un rosario.
Quando un
ragazzo ha la faccia di Luka Doncic alle Final 4, qualcosa non va. Lo sguardo
perso, la bocca semiaperta e un profilo incerto. Porta la palla dall’altra
parte del campo ma non prende decisioni, non impatta sul gioco. Fa il passaggio
più facile, taglia, si posiziona sulla linea del tiro da tre, aspetta.
Altre volte
ha spazio per il tiro, ma si vede che non si fida. Non ci prova nemmeno. Gli
spettatori lo guardano interrogativi, mentre Sergio Llull usa tutti i trucchi
che trova in fondo alla sua bisaccia cestistica per tenere in partita il Real
contro il Fenerbahce.
Laso dopo un
po’ lo toglie. Qualunque cosa è meglio. Forse ha sbagliato a metterlo in
quintetto fin dall’inizio. È possibile che il campo, l’evento, lo intimidiscano
e lui si sia rifugiato dove sembra trovarsi meglio: sé stesso.
È una cosa
strana. Noi vediamo i giocatori come giocatori, fatichiamo a vederli come
persone. Pensiamo che il talento basti, e Luka ne ha tanto. Ma non è così. Il
ragazzo lascia Lubiana a 12 anni con la promessa di un futuro migliore per sé e
la famiglia. Si trasferiscono tutti a Madrid per vedere sbocciare un giocatore
unico, quel Santo Graal che gli scout in giro per il mondo cercano
continuamente.
Da allora
allenamenti, speranze, desideri, promesse di contratti milionari riposano su
spalle ancora fragili, che sentono tutto questo come una zavorra da portarsi
dietro.
Spesso, i
ragazzi come Luka si paragonano a Drazen Petrovic. O Dejan Bodiroga. O Toni
Kukoc. Ma qui il caso è molto diverso: tutti e tre i suddetti crebbero in un
ambiente completamente diverso, maturarono in una Yugoslavia che non dava a
nessuno di loro il peso di contratti milionari, di promesse da avverare con il
loro gioco. Drazen era una ragazzotto presuntuoso dallo sconfinato talento, non
doveva pensare all’agente, al manager, al marchio che avrebbe fatto le scarpe
col suo nome. Dejan e Toni lo stesso, giocatori che crebbero nel loro tempo, in
una Yugo e uno sport ancora fuori dall’incrocio di interessi milionari che
rischia ora di strangolare i talenti, con il peso di attese mostruose e un
precoce approdo alla NBA.
Un padre che
ragioni come un padre, anche non il padre di Luka, pensa una sola cosa
guardandolo in quella partita: proteggetelo. Portatelo fuori da lì, su una
spiaggia, in un campetto di periferia, e lasciategli assaporare la gioia della
vita. I confronti con i giocatori del passato non tengono mai conto del fatto
che a essere cambiati non sono solo gli uomini, ma anche le condizioni. Oggi
sulla pelle dei ragazzi si sviluppa un mercato che li schiaccia con promesse
che sono condanne, la loro strada viene decisa a un’età molto precoce e non c’è
tempo di crescere, svilupparsi, amare, provare le emozioni e i sentimenti che
ti rendono uomo.
Drazen oggi
a 17 anni avrebbe avuto un agente a bussargli alla porta, e non Moka Slavnic a
gridargli nelle orecchie, non la palestra semibuia di Sebenico e un campetto in
cui andare a tirare 500 volte alle 6 del mattino per scavare, con la sua forza
di volontà, il talento da un corpo e una mente che non erano superiori, lo sono
diventate grazie all’allenamento e alla voglia.
L’adolescenza
è il tempo in cui trovare se stessi, non per essere modellati per rispondere a
una visione di mercato, che non tiene conto della nostra unicità. Tutto quello
che è caduto addosso a Luka in questo anno lo ha messo al centro dei
riflettori, ma lo ha anche spaventato, l’ha fatto rintanare in una parte di sé
in cui si nasconde il fanciullo che tutti noi siamo. E non bisogna fargliene
una colpa. Bisogna invece trovare il modo di sottrarlo dalla luce e dargli
ancora la possibilità di affinarsi, di formarsi, di darsi un senso.
Sicuramente
l’allenamento sarebbe una buona cura. E ritrovare nel basket il significato
della gioia, del divertimento, dell’affermazione di sé in un campo di uguali. È
solo fino a un certo punto una questione di carattere, è la questione di un
ragazzo che deve trovare la sua strada e non farsela imporre.
Nella finale
del terzo posto, con Luka, in campo, uno spaesato Andres Nocioni giocava i suoi
ultimi minuti di Eurolega. Andres viene dalla “generacion dorada”
dell’Argentina, in cui lui, Ginobili, Oberto, Scola, Delfino, vinsero tutto
battendo anche gli Stati Uniti.
Andres venne
in Europa più o meno nello stesso periodo di Ginobili, in cerca di una fortuna
che il suo talento poteva dare alla vita. Per lui e gli altri di quella
generazione, l’affermazione di sé è stata la lotta per la sopravvivenza.
D’estate si trovavano in Nazionale a giocare, con la gioia infantile di chi
ritrova una casa e il posto da cui viene. In Europa svilupparono i loro talenti
a poco a poco, Ginobili per esempio con Gebbia a Reggio Calabria, e divennero
giocatori dominanti, anche in NBA.
Quegli
ultimi suoi minuti sono stati strazianti. Quando il suono del quarantesimo ha
chiuso la partita, Andres è rimasto in campo qualche minuto, è uscito per
ultimo del Madrid, mescolato agli ultimi del CSKA. Deve aver sentito qualcosa
che usciva da sé per sempre, e che tra poco uscirà del tutto, alla fine dei
playoffs spagnoli.
Nocioni è
stato un giocatore tecnico e duro; in NBA ricordano ancora il suo fallo contro
Wade, e il suo coraggio leonino che non lo ha mai fatto arretrare. Ma quel suo
carattere non è nato all’improvviso, dal nulla: è un risultato. E questo sfugge
a molti.
Il risultato
è importante, ma è il prodotto di un processo umano a cui non si può derogare.
Prima viene l’uomo, con il suo carattere, la sua forza, che sono in parte
elementi innati, ma in (gran) altra parte elementi che vengono allenati.
Soprattutto bisogna non sentirsi soli, avere dei grandi amici, non illudersi che
la propria grandezza sportiva ti renda un solitario in grado di risolvere
tutto.
Ecco, Luka
sembra un ragazzo molto solo, da cui tutti si aspettano qualcosa, un qualcosa
che lui non può dare, perché se il suo corpo, cestistico, è stato allenato a
dare il massimo, la sua anima, l’anima di un ragazzo, deve ancora crescere,
stabilirsi, darsi una forza e un obiettivo. Tutti i padri parlano dei loro
figli come se fossero dei genii, come se fossero già grandi, ma la realtà è che
questa loro giovinezza è da preservare, da costruire, da rendere la rampa di
lancio di un’età adulta che non deve essere sacrificata alla fretta, di mettere
in campo una mucca da spremere in contratti commerciali.
E come padre
qualcuno dovrebbe prenderlo dal campo, portarlo fuori, farlo amare, conoscere
le cose, stare con gli amici. Fare una vacanza con lui, parlargli con quella
intimità con cui si passano le cose importanti, che non sono le norme degli
allenatori, ma quelle parole, intime, che ti fanno andare avanti nella vita.
Perché, Nocioni insegna, la forza non viene solo dal basket, ma da un fuoco
interiore che alleni con i valori, con gli amici eterni, i Manu, i Luis, con
cui sognerai ancora di giocare tra vent’anni, di gettarti tra le spine per
aiutarli a vincere.
Perché il
segreto dei grandi è che si è davvero grandi quando si dà tutto e vincono gli
altri, non solo quando vinci tu. Perché tu, da solo, non andrai mai da nessuna
parte. Ma per farlo ci vuole fuoco dentro. Un fuoco da uomo, vero.
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